Nel corso degli anni centinaia di libri e di speciali televisivi hanno indagato le cause del suicidio del cantante. Sconfinando spesso nella fantascienza musicale.
Non c’è nessuna eroica grandezza in quel corpo adagiato nella depandance del garage della villa al 171 di Lake Washington Boulevard East, Seattle, Stati Uniti d’America, le 8 e 40 dell’otto aprile 1994. Niente cede alla retorica, tanto meno a quella inscrivibile alla voce “rock maledetto”. Né il Remington M-11 con i suoi colpi in canna, ne le Converse nere, ne i 120 dollari in contanti, le siringhe e i cucchiaini. Neanche la lettera d’addio infilzata, con una biro nera, nel terriccio di un vaso e il sangue sul pavimento. L’ultima scena della vita di Kurt Cobain è l’ammissione di una sconfitta. Inflitta a se stesso dal genio più elettrico e visionario dell’ultimo quarto di secolo del rock. Ma quella scena ha sollevato e solleva ancora domande.
Un verdetto impietoso. Altro fotogramma. Poco meno di 120 minuti dopo, migliaia di fan sono già in fila, una veglia silenziosa nel grigio mattino di Seattle. E mentre la polizia compie il suo lavoro – ed emana il suo verdetto: suicidio, avvenuto tre giorni prima, il 5 aprile – mezzo mondo si chiede “perché?”. Courtney Love, la moglie di Cobain, cerca di consolare i fan all’esterno della villa. A qualcuno regala i vestiti del marito. Centinaia di giornalisti lasciano la sede della Boeing, dove è in corso la presentazione di un nuovo gigante dei cieli e si dirigono verso la villa. Osservano, domandano, raccontano. Tra questi, Richard Lee, 31 anni. Che dopo una settimana pubblica un articolo: “Chi ha ucciso Kurt Cobain?”. Inizia così l’infinita serie di teorie del complotto che negli ultimi vent’anni hanno riguardato la morte del leader dei Nirvana.
La teoria, se così si può definirla, che Richard Lee porterà avanti nel corso degli anni parte da un fatto non verificabile. Lee sostiene di aver visionato delle immagini del ritrovamento del cadavere, girate da un fan appostato all’esterno della casa, dalle quali emergerebbe l’incongruenza tra la modalità del suicidio – un colpo di fucile alla testa – e la scarsa quantità di sangue presente intorno al corpo di Cobain. Le smentite arrivano subito: esperti di balistica replicano che nel caso di un colpo esploso nella cavità orale, il sangue non fuoriesce in grandi quantità. Ma Lee va avanti. Diventando il capofila di chi ritiene che il cantante dei Nirvana sia stato assassinato.
L’investigatore Tom Grant non si dà pace. Al secondo posto di questa lista c’è Tom Grant, professione investigatore privato. Passo indietro. Il 25 marzo 1994, in casa Cobain, si tiene una riunione. Viene suggerito al musicista il ricovero in una clinica per disintossicarsi dall’eroina. Tutti d’accordo. Il ricordo dell’incidente di Roma è ancora vivo. Il 30 marzo Cobain arriva al centro di riabilitazione Exodus di Marina del Rey, Los Angeles. Vi resta 24 ore. Il giorno seguente, dopo la visita della figlia, fugge, prende un aereo e torna a Seattle. Ma fa perdere le proprie tracce. Courtney Love ingaggia Grant. Gli chiede di ritrovare il marito. Blocca le carte di credito. Grant inizia la sua caccia. Inutile. Nei giorni fino all’8 aprile la polizia e gli amici di Kurt visitano più volte la sua casa. Ma di Cobain nessuna traccia. Fino al ritrovamento del cadavere. Nessuno guarda in quella stanza sopra al garage.
E Grant non si da pace. Continua le sue indagini. È convinto che qualcosa non torni. Legge gli atti della polizia. Fa domande agli amici della rockstar. E stila una lista di “contraddizioni” che escluderebbero il suicidio. La prima: la quantità di eroina presente nel sangue di Cobain al momento della morte è tre volte superiore alla dose letale. Il leader dei Nirvana non avrebbe avuto neanche la forza di accendersi una sigaretta, figuriamoci di imbracciare un fucile. La seconda: proprio sul Remington M-11 non ci sono tracce chiare di impronte digitali. Come se qualcuno avesse cercato, in modo maldestro, di cancellarle. La terza: la Suicide Note, la lettera d’addio, sembra scritta da due mani diverse. Pressione sulla carta, grafia, parole utilizzate. Il commiato finale non sarebbe stato scritto da Cobain. La quarta: nei giorni successivi al cinque aprile qualcuno avrebbe cercato di utilizzare le carte di credito.
L’indagine parallela di Wallace e Alperine. Nel corso degli anni, Grant partecipa alla stesura di molti libri. Tra cui quelli dei due giornalisti musicali che hanno fatto dell’indagine sulle cause della morte di Cobain la loro ragione di vita professionale, Max Wallace e Ian Alperine. Si tratta di un’indagine parallela, condotta a tutto campo e che viene diffusa attraverso due libri. Il primo viene pubblicato nel 1998 e diventa subito un bestseller. Il titolo – Who killed Kurt Cobain – richiama l’altra indagine giornalistica di Richard Lee. Ma stavolta, l’impianto è diverso: i due giornalisti ritengono che le prove per affermare che Cobain sia stato ucciso non sono “evidenti”. Ma che gli indizi raccolti dovrebbero almeno spingere la polizia a riaprire il caso. Nel 2004 i due danno alle stampe Love And Death, The Murder Of Kurt Cobain. E qui fanno proprie le tesi di Tom Grant. Pubblicando anche stralci delle conversazioni avvenute pochi giorni dopo la morte di Cobain tra l’investigatore privato e Rosemary Carrol, legale di Courtney Love. In una di queste l’avvocato affermerebbe che Cobain, in realtà, è stato ucciso.
Ma come? A proporre una ricostruzione è Nick Broomfield, nel suo documentario “Kurt and Courtney”, 1998. Qui si sfiora la fanta-storia. Broomfield concentra la sua indagine sulle “mosse” di Courtney Love nei giorni precedenti e successivi al 5 aprile 1994. In sintesi, la teoria proposta è: i due sono vicini al divorzio. La Love teme di essere diseredata. E ingaggia un ex musicista di Los Angeles – El Duce – per uccidere Cobain in cambio di 50mila dollari. È lo stesso El Duce che afferma questa versione dei fatti. Ovviamente senza fornire nessuna prova. Le polemiche dopo l’uscita del documentario partono subito. Ma è lo stesso Broomfield a fermarle: “Credo che Cobain si sia suicidato. E penso che ci sia un solo modo per spiegare la sua morte. La mancanza di cura nei suoi confronti. Anche dalle persone che gli erano più vicine”.
Una linea condivisa dalla maggioranza delle persone che hanno frequentato Cobain nei suoi ultimi mesi. L’abisso di una solitudine senza via d’uscita – come quella “osservata” da Gus Van Sant in The Last Days – acuita dall’essere permanentemente sotto i riflettori, dall’uso di eroina. Da Dave Grhol al padre di Cobain. Tutti danno una spiegazione simile. Certo, non manca chi, come Kim Gordon dei Sonic Youth continua a dirsi convinta che Cobain non si sia suicidato. In tutti, il rimpianto. Come quello cantato da Michael Stipe in Let Me In, la canzone dedicata a Cobain su Monster, il disco dei Rem uscito pochi mesi dopo quel maledetto 5 aprile 1994. “Ho avuto l’idea di provare a fermarti. Lasciami entrare. Lasciami entrare”.