Il 5 aprile del 1994 il cantante dei Nirvana si sparava un colpo di fucile in faccia nel garage della villa di Seattle. Aveva 27 anni. Per testamento, lasciò il verso di una canzone di Neil Young: “Meglio bruciare che spegnersi lentamente”. Nel nichilismo della sua musica, il grunge, avevano trovato un’identità milioni di ragazzi che cercavano il riscatto dalla noia e dal conformismo. L’artista fu travolto da quel successo: per lui era un tradimento.
Per quelli che l’hanno amato, il volto emaciato, la barba lunga, i capelli biondi madidi di sudore sono quelli di un Cristo in croce. Per chi ne ha fatto un’icona, le camicie di flanella a scacchi, i jeans logori e sdruciti e le Converse sono cimeli. Per coloro che hanno scelto la sua voce come colonna sonora, i dischi dei Nirvana fotografano un momento fulminante, drammatico, irripetibile; un messaggio che, partito da Seattle, è andato ben oltre la grunge generation. Con un gesto, l’idolo si trasformò in martire: Kurt Cobain si suicidò vent’anni fa, il 5 aprile del 1994, a 27 anni; un colpo di fucile in faccia nel garage della villa di Seattle. Per testamento, il verso di una canzone di Neil Young: Meglio bruciare che spegnersi lentamente.
TRADITO DAL SUCCESSO. “Fu azzannato alle spalle da fama e successo, e con lui anche tutti noi diventammo preda di mille contraddizioni”, avrebbe commentato Jonathan Poneman, discografico che con l’etichetta Sub Pop diede voce al grunge. “Volevamo solo essere una piccola alternativa alle major discografiche con un pugno di rocker reclutati nelle zone depresse dello show business americano che invece sono diventati leggenda, dando origine all’ultima, drammatica, rivoluzione del rock’n’roll. Rabbia, angoscia e disillusione giovanili espresse con un devastante mix di rock, punk e metal”. Bruce Pavitt, il socio in affari, conferma che l’angoscia di Cobain fu sempre proporzionale alla portata della sua musica, provinciale all’inizio, globale dopo i trenta milioni di copie vendute da Nevermind tra il 1991 e il 1992. “Si resero conto a Roma che il fenomeno stava crescendo a dismisura, durante un concerto dei Nirvana, nel 1989”, racconta. “Serata magica, pubblico in estasi. Kurt rientrò nel camerino esaltato, disorientato. Ci guardammo, la sua paura era la nostra paura. “Che sarà di noi se continua così?”, mormorò. Non avevamo neanche iniziato e già era il delirio”. Roma sarebbe diventata la città simbolo del mal de vivre di Cobain. Il primo marzo 1994 mise in scena proprio nella capitale la prova generale del suicidio: overdose nella stanza 514 dell’Hotel Excelsior con un mix di Roipnol e champagne (fu salvato al pronto soccorso del Policlinico Umberto I).
GENERAZIONE GRUNGE. Nel nichilismo del grunge trovarono un’identità milioni di ragazzi che cercavano il riscatto dal tedio e dal conformismo, e non fu solo l’America profonda a rispondere ma il mondo intero; era violento, liberatorio, dissacrante, totalmente libero dai condizionamenti dell’industria. Come il punk, era rock nudo e crudo nato per restare nell’underground, nei garage e nelle cantine, nei vecchi magazzini di Pioneer Square, nei club di Capitol Hill frequentati dalla popolazione universitaria di Seattle. Nessuno pensava che sarebbe finito in classifica, tantomeno che avrebbe cambiato le sorti, il look e la visibilità di una città che fino ad allora veniva citata negli annali del rock solo per aver dato i natali a Jimi Hendrix, per essere stata la culla dei primi exploit di Quincy Jones e Ray Charles e teatro di una storica settimana di concerti tenuti da John Coltrane nel 1965 (Live in Seattle fu poi pubblicato postumo nel 1971). “È la scena più eccitante prodotta da una singola città, come non accadeva dai tempi della Londra punk”, scrisse Everett True, il giornalista inglese che coniò il termine “grunge”. E più eccitante sarebbe diventata nel 1991, quando i Nirvana pubblicarono l’album Nevermind e il singolo Smells like teen spirit. L’abbigliamento grunge – camicie di flanella a scacchi, pantaloni di velluto millerighe o jeans delavé – diventò un must anche nelle più accreditate maison (il giovane Marc Jacobs, che allora lavorava per Perry Ellis, ci costruì un’intera collezione). Nel ’92, il regista Cameron Crowe scelse la città del grunge per ambientare L’amore è un gioco e Nora EphronInsonnia d’amore. L’anno dopo, Bernardo Bertolucci, ci girò le scene americane de Il piccolo Buddha. Paul Allen, cofondatore della Microsoft, commissionò all’architetto Frank Gehry la costruzione di un futuristico museo della musica che ha aprì battenti nel 2000, l’Experience Music Project.
IL RISCATTO IMPOSSIBILE. Cobain viveva quel successo come un tradimento. Il continuo confronto con il pubblico lo logorava. Il sospetto del tradimento che aleggiava tra i puristi lo feriva a morte. Il leader dei Nirvana vomitò improperi anche contro i Pearl Jam, “venduti” a una major discografica e all’establishment. Altri avrebbero goduto di quel successo planetario, per Cobain diventò un’ossessione. Cercò il riscatto con In utero, quello che sarebbe stato l’ultimo disco dei Nirvana: doveva essere il disco della redenzione, fu quello della dannazione; la mission impossible dell’artista che voleva ristabilire la credibilità indie della band. “Quella decisione”, confessa il produttore Steve Albini, “generò una spaventosa pressione dell’industria che mandò in tilt il fragile sistema del leader”. Lo conferma anche Krist Novoselic, ex bassista dei Nirvana: “Kurt, un artista puro, mai presuntuoso, mai supponente, ha pagato per tutti. In utero è un disco realizzato senza interferenza alcuna, e soprattutto come se Nevermind non fosse mai esistito. Noi eravamo ben consapevoli che la grandezza di Kurt come autore era indissolubilmente legata al suo malessere e alla sua disperazione; era lui che i fan adoravano”. In effetti, la comunione tra i fan e i nuovi eroi del rock era totale. Per un’anima fragile come Kurt Cobain, ogni accusa era una coltellata. Eddie Vedder e gli altri Pearl Jam discutevano per ore e giorni sulla linea da seguire per non… tradire. Di quel disordine creativo che spesso sfociava in crisi esistenziale qualcuno inevitabilmente pagò – complice l’eroina – un prezzo altissimo.LA RINASCITA DI SEATTLE. Quando, dopo il suicidio di Cobain, una folla di cronisti si riversarono a Seattle trovarono una città praticamente irriconoscibile. La zona di Pioneer Square, dove più di un secolo e mezzo fa cominciò a svilupparsi la moderna Seattle, era ormai un elegante quartiere di edifici a mattoni rossi, popolato da gallerie d’arte e jazz club. Non era così dieci anni prima: alla metà degli anni Ottanta quella zona era ancora degradata, popolata da homeless e hippie in pensione. La nuova Seattle, il cui skyline è ormai quello di una piccola Manhattan, è oggi considerata alla stregua di San Francisco, una delle città più tolleranti e vivibili d’America.
FU DAVVERO SUICIDIO? La villa al 171 di Lake Washington, teatro del suicidio, è ancora meta di pellegrinaggio, anche se la moglie Courtney Love l’ha venduta da anni e la figlia Frances Bean, che ora ha 21 anni ed è erede di un patrimonio di circa 170 milioni di dollari, vive in pianta stabile a Los Angeles. Vengono qui a piedi da Capitol Hill, il quartiere dell’università, una bella scarpinata con zaini e sacchi a pelo fino all’incrocio con la 39esima Avenue, dove le case dei ricchi si affacciano sul miglior panorama della città, tra il lago e la baia. Altri vagabondano per i vialetti ombrosi del Lakeview Cemetery, intorno alle tombe dl Bruce e Brandon Lee, chiedendo dove sia la tomba dl Cobain, ignari del fatto che Courtney Love, la Yoko Ono del grunge, fece immediatamente cremare i resti del marito. In una villa identica, il regista Gus Van Sant girò nel 2005 Last Days, ispirato agli ultimi giorni di Cobain, l’omaggio più discreto e sensibile all’eroe del grunge.
“L’idea del film scaturì da alcune intime curiosità”, dice il regista. “Mi chiedevo da anni come fossero state le ultime ore di Cobain prima del suicidio. Nei primi anni Novanta, dopo aver girato Belli e dannati, andai ad abitare in una casa di Portland molto simile a quella di Kurt e Courtney. La mia guardava la città, la loro il lago, ma erano entrambe dimore borghesi dei primi del Novecento. Era un posto assurdo, troppo grande, che non mi apparteneva per niente. Mi sono chiesto se anche Kurt si sentisse a disagio in quella grande casa”. Fu una fine violenta, ma allo stesso tempo naturale, inevitabile, secondo il regista. Che chiude la bocca a tutti quelli che oggi, alla luce di un rullino di foto mai sviluppate che fu rinvenuto nel garage, pretendono di far riaprire il caso per dimostrare che non fu suicidio. Ma chi erano i nemici di Cobain? Ne aveva davvero peggiori del successo?